Funerali e Cerimonie in Chiesa non si devono pagare”

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Un  Parroco è andato letteralmente in crisi dopo quanto Papa Francesco ha detto sulla gratuità dei sacramenti.

 

Mi ha assicurato che non è turbato per il timore che, per le parole del Papa, possano diminuire le offerte alla parrocchia per Messe, Battesimi, Matrimoni e Funerali, ma perché si sente esposto al rischio che la gente lo consideri un prete venale o addirittura simoniaco. Lo capisco, perché so che fin da seminarista aveva ricevuto da suo padre un’intemerata del tipo: «Guai a te se diventi prete per fare i soldi» e, da allora, del distacco dal denaro egli s’è sempre fatto un punto d’onore.

«A riprova di ciò che penso e faccio al riguardo, – mi dice – ti mando un editoriale pubblicato sulla mia rivista parrocchiale anni fa, quando c’era ancora Benedetto XVI. Quello scritto riprendeva altri interventi del genere fatti per educare i fedeli a come “sovvenire alle necessità della Chiesa secondo le leggi e le usanze”, che è il quinto dei Precetti generali della Chiesa. Leggilo e poi dimmi il tuo parere, ma fallo presto, perché ciò che ha detto il nostro carissimo Papa mi ha veramente turbato».
L’ho letto e ho deciso di pubblicarlo nell’eventualità che anche altri dei nostri sacerdoti si stiano trovando nello stesso stato di disagio. L’articolo è intitolato “QUANTO COSTA?”. Eccone il testo.

QUANTO COSTA?

Dopo Battesimi, Matrimoni o Funerali, spesso c’è ancora chi viene a chiedere: «Quanto costa?».
È una domanda imbarazzante. Sempre. Infatti, sia pure senza volerlo, rivela che si pensa alla parrocchia come a una bottega di oggetti religiosi, corone, candele, statuette e quant’altro. Compri, paghi e te ne vai.
Ad ogni modo, personalmente, quando mi domandano quanto costa, io rispondo sempre: «Non costa niente. Non può essere che così, perché i sacramenti sono un immenso, impagabile dono di Dio per la salvezza di tutti. E se sono per la salvezza di tutti, non li si può certo dare o negare in base al pagamento».
«E allora – dirà qualcuno – perché c’è questa usanza di “pagare” dopo una prestazione religiosa?».
Questa bella (bellissima!) usanza, che c’è in tutta la Chiesa, è nata per rispondere in qualche modo al dovere morale dei parrocchiani di sostenere la loro comunità nelle sue necessità materiali.
In fondo, è stato così fin dall’inizio. Il Vangelo di Giovanni (12, 6 e 13, 29) ci dice infatti che Gesù e i Dodici avevano una cassa, dove non c’erano delle medagliette da dare ai bambini, ma soldi veri per le loro necessità e per la carità verso i poveri. (Fatta la proporzione numerica tra i fedeli di allora e gli attuali, in quei passi di Giovanni trova la sua legittimazione evangelica anche lo IOR…).

LO STATO E I COMUNI HANNO LE TASSE. LE PARROCCHIE HANNO LA CARITÀ

Le parrocchie sono come il gruppo dei Dodici. Esistono certo solo per le realtà spirituali, ma, non essendo fatte di angeli, devono far fronte a problemi materiali quali il pagamento degli stipendi del personale alla fine di ogni mese, le spese generali, quelle di manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici, la dotazione e la conservazione degli oggetti inerenti al culto, ecc. ecc.
Lo Stato, il Comune, per far fronte a questo tipo di spese possono contare sulle imposte e sulle tasse. La Chiesa, invece, può contare solo sulla libera generosità dei suoi fedeli. Ed è per questo che lungo i secoli sono nate usanze diverse da luogo a luogo per sostenere la Chiesa nelle sue necessità materiali. Da secoli infatti, il 5° dei Precetti generali della Chiesa raccomanda ai fedeli di “sovvenire alle necessitò della Chiesa secondo le leggi e le usanze“.
«Questo l’ho capito – dice sempre qualcuno – e mi sembra più che giusto, ma lei mi può dare un’indicazione? Perché, sa, non vorrei dare né troppo, né troppo poco».
O Dio, il pericolo di dare troppo non c’è. Il pericolo di dare troppo poco nemmeno, perché i sacramenti vengono dati anche se poi non fai nessuna offerta. È già successo non poche volte anche qui a Belsito.
Il dare troppo poco, se proprio ci si tiene, si può evitare tenendo presente che siamo nell’ambito del dono. E i doni non si possono tariffare, sono legati alla forza dell’amicizia. Nel caso nostro, dipende dall’attaccamento che abbiamo alla Chiesa, dalla nostra riconoscenza per quello che essa fa per noi e per i nostri cari dalla nascita alla morte e anche oltre, dipende dal desiderio che abbiamo che la Chiesa continui a svolgere il suo compito senza grossi problemi economici.
«Anche questo lo trovo sensato e anche molto bello, – insiste il fedele… ansioso di fare la sua offerta – ma davvero non mi può dare un’indicazione?».
No, perché si annullerebbe tutto il discorso del dono e si cadrebbe in un rapporto puramente commerciale. Una tariffa infatti andrebbe giustamente motivata con tutta una serie di dati. Si dovrebbe tener conto, ad esempio, di quante persone e per quanto tempo sono impegnate per una qualsiasi “prestazione” religiosa e pensare che a fine mese a quelle persone la Parrocchia deve dare uno stipendio, o, comunque, un compenso. La nostra parrocchia, ad esempio, ogni mese deve versare per questo sui 5000 euro senza contare i contributi. Poi andrebbe prevista anche una quota per far fronte alle spese generali, a quelle per la manutenzione ordinaria e straordinaria degli ambienti e delle suppellettili, ecc. ecc. Così però siamo assai lontani dall’economia del dono di cui si parlava e che è l’unica che ha senso in un ambito di famiglia come è quello della Chiesa.

IL DONO DELLA VEDOVA

Volete un esempio di “cultura del dono”? Recentemente un’anziana vedova, dopo il funerale del figlio, è venuta a trovarmi e in tutta semplicità ha donato 350 euro alla Parrocchia, 200 a una chiesa sussidiaria di cui è devota, 400 ai missionari nativi di Belsito e 200 all’oratorio. In quel momento mi è venuto in mente la mamma di un ragazzo morto in un incidente quand’ero giovane prete. Dopo la preghiera in casa con i parenti e gli amici, mi mise in mano 50.000 lire. Io mi sentii a disagio. Lei se ne accorse e mi disse: «Mi scusi, padre, se non l’ho fatto in buona maniera, ma lei le prenda, perché nei grandi dolori e nelle grandi gioie dobbiamo ricordarci degli altri». Usai quei soldi per comprare dei sussidi per la preparazione delle famiglie al battesimo e la domenica dopo lo dissi alla gente, senza far nomi. Un papà, che era presente, si ricordò di questo fatto mesi dopo, quando perse a sua volta improvvisamente una sua bambina, e dopo il funerale volle ripetere quel gesto.

ANCHE SAN PAOLO FACEVA COLLETTE

Riguardo ai doni alla Chiesa, S.Paolo ci insegna. In occasione della grande colletta da lui organizzata (anche lui!) a favore della Chiesa di Gerusalemme trovatasi in gravissime necessità, nella seconda lettera ai Corinzi (cap. 9) innanzi tutto dice: «Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore». Poi aggiunge: «Lo faccia però non con tristezza, ma con gioia». E continua con una motivazione bellissima: «Perché Dio ama chi dona con gioia». E infine conclude dicendo: «Chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà e chi semina con larghezza, con larghezza raccoglierà».

Caro parroco , come vedi ho pubblicato il tuo scritto. L’ho fatto con l’intento che serva a chiarire tante cose, se mai ce ne fosse bisogno. Credo che leggendolo, i lettori siano d’accordo con me. Non so a chi si riferisse il Papa quando ha fatto quel forte richiamo che ti ha turbato. Sicuramente non si riferiva a te, né ai preti che conosciamo, i quali cercano con grosse difficoltà di gestire anche economicamente le parrocchie sollecitando ed educando i fedeli a una partecipazione generosa alla quale, proprio perché amano la Chiesa, essi aderiscono serenamente e con animo lieto, come raccomanda S.Paolo. Alla faccia di quelli che invece, secondo un detto popolare, sono larghi di bocca e stretti di mano e che d’ora in poi, purtroppo per loro, avranno perfino la presunzione di avere l’approvazione nientemeno che del Papa in persona.

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